Dalla CITTADINANZA "giuridica" alla CITTADINANZA "attiva"


Come tutti sappiamo,il termine cittadinanza indica uno stato legato generalmente ad un aggettivo geografico, come ad esempio cittadinanza italiana, stato da dichiarare per la richiesta di documenti ufficiali o in occasione di domande varie come borse di studio, licenze di attività o posti di lavoro.

Di fatto, avere una cittadinanza implica il possesso di una serie di requisiti che la determinano -luogo di nascita, periodo di residenza nel paese, rinuncia ad altra cittadinanza- e comporta una serie di diritti e doveri, generalmente espressi nella Costituzione del paese.

Oggi, però si impone un nuovo paradigma interpretativo. Parlare di cittadinanza nel mondo contemporaneo risulta arduo: significa, infatti, non solo delineare la figura di quanti condividono il medesimo suolo, la medesima lingua e cultura ma, allo stesso tempo, comporta familiarizzare con concetti come integrazione, globalizzazione, popolo, territorio e molto altro. Perché anche la cittadinanza, come la nazionalità (della quale rappresenta diretta derivazione), molto dice su chi si è o chi si vorrebbe essere.

Le trasformazioni epocali dimostrano la crisi di un modello storico di organizzazione sociale che richiede non solo una nuova configurazione istituzionale, ma un nuovo tipo di relazione tra stato e società civile, il cui fulcro sia il paradigma di nuove forme di cittadinanza. Infatti, la cittadinanza giuridica, sorta e sviluppatasi in Occidente, acquista un limite da modificare con nuovi approcci di tipo antropologico e sociologico. Nasce così il concetto di cittadinanza attiva, che definisce l’attitudine del cittadino, inteso come colui che abita la città, ad organizzarsi in pluralità di forme e ad esercitare un potere autonomo per la tutela dei propri diritti, in quelle aree della vita sociale nelle quali maggiore è l’impotenza dei poteri pubblici e dove, per questo, si sperimentano di più fenomeni di abbandono, sudditanza, emarginazione e sofferenza.

Nel caso degli emigranti, residenti e non cittadini, tale richiesta di cittadinanza attiva si spinge verso l’ottenimento del voto amministrativo, in attesa del riconoscimento di diritti politici da esercitare nel luogo in cui hanno deciso di permanere e di lavorare, contribuendo alla sua crescita di cultura e di produzione. C’è bisogno di strumenti idonei per l’affermazione dei principi di pari dignità e di uguale trattamento, secondo una nuova concezione di cittadino che vada al di là dell’appartenenza a uno stato specifico.

La realtà in cui viviamo, multietnica e multiculturale, è e sarà sempre più costituita da popoli diversi dentro una cittadinanza comune e deve potersi sviluppare nel rispetto di una civiltà fondata su criteri-guida universali e sul diritto, per eliminare fenomeni di irregolarità e di illegalità, a cui spesso oggi si assiste. E tali fenomeni, diffusi e poco controllabili politicamente, stanno trasformando lo stesso principio-valore di cittadinanza in criterio di discriminazione tra cittadinanze che si trovano a convivere o a entrare in conflitto nello stesso luogo abitato. Una conquista civica e di civiltà che si sta trasformando in elemento discriminante delle proprie condotte. I modelli di convivenza civile e di coesione sociale che definiscono correntemente il welfare, presentano segni di crisi che incidono su tutte le forze politiche, siano progressiste o conservatrici. Segni di crisi che hanno delle implicazioni profonde sulle culture democratiche che stanno cercando risposte valide in termini di sostenibilità economica finanziaria e di equità, di flessibilità e di apertura dinanzi alle profonde trasformazioni che stanno avvenendo. Questo banco di prova è molto importante soprattutto per quelli che hanno scommesso sulla lotta contro la povertà e l’esclusione  di chi soffre oggi il grande svantaggio di un’insicurezza sociale.

Si profila una cittadinanza attiva, meno passiva, meno disposta a delegare, più coinvolta nel soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi, che possa diventare lo strumento efficace per un benessere sociale e relazionale e sappia porre le basi per quella sicurezza sociale di cui tanto si parla.

La cittadinanza attiva si può considerare come forma diversa di una nuova organizzazione socio - politica. Non risponde più solo a funzionalità produttive o di ricerca di nuova soggettività, ma all’esigenza di realizzare in pieno forme di “autogoverno locale”.

Si parla tanto, oggi, di autonomia, di decentramento, ma è ancora difficile individuare su quali spazi realizzarle. Concettualmente sono ben spiegate dalla scienza politica ma richiedono disponibilità e volontà da parte dei poteri costituiti che tendono, invece, a rinchiudersi e ad auto-centrarsi per il proprio auto-mantenimento.

Come realizzare un’auto-governabilità? Di fronte all’impatto di nuove presenze di cittadinanza riconosciute esclusivamente a livello etnico e solo in parte, e non dovunque, a livello amministrativo, l’impalcatura sociale sembra barcollare. Occorre dare riconoscimento alla realtà sociale che si va configurando in modo diverso e in cui i soggetti sociali premono perché ciò avvenga. Sta maturando una nuova coscienza comune che pretende che si considerino, oltre le differenze, anche le qualità, i bisogni, le esigenze della persona in quanto tale. Ognuna di esse dovrebbe essere messa in condizione di sentirsi, legittimamente, nel diritto di partecipare alla costruzione del sistema sociale in cui è inserita. E questo sarà possibile nella misura in cui avverrà, di fatto, il riconoscimento e l’attribuzione dei diritti di tutti a tutti: diritti intesi universalmente, validi proprio perché di tutti, qualificanti originariamente le dimensioni di dignità e di libertà di ogni persona, a prescindere dalle sue caratteristiche etniche, culturali e religiose.

Siamo oggi alla quarta generazione dei diritti e c’è chi parla di cittadinanza del nuovo diritto internazionale, cioè di un nuovo costituzionalismo mondiale. Se la soggettività giuridica è la titolarità di diritti e la cittadinanza è l’appartenenza a una data comunità politica, quale presupposto dei diritti da essa conferiti, nel nuovo paradigma di cittadinanza ogni essere umano è ormai soggetto di diritto internazionale, ossia cittadino non più solo del proprio stato ma anche della Comunità internazionale, sia essa di carattere regionale, come per esempio l’Unione Europea, o di carattere mondiale come l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Ed è in questa linea che si parla di cittadinanza plurima.

Questa trasformazione di concetto è ancora, e purtroppo, soltanto presente sul piano giuridico, mentre dovrebbe essere attuata negli effettivi rapporti tra cittadino – stato e Comunità mondiale.

Come cittadini italiani abbiamo come propria la cittadinanza europea perché l’Italia è uno stato membro dell’Unione e siamo chiamati per questo a definirne il profilo politico attraverso la partecipazione alla sua costruzione, collaborando responsabilmente insieme a tutti gli altri cittadini europei dei 28 stati membri a definire principi, valori e normative che configurino la sua architettura unitaria.

Quale progetto politico allora scegliere per la nostra Europa? Quale progetto di civiltà europea da offrire al mondo? Siamo presto chiamati alle urne per esprimere il nostro parere: il 25 maggio è alle porte e attraverso il voto dato ai nostri rappresentanti, potremo incidere sulle politiche da attuare nello spazio della nostra area geografica.

“Non ho mai pensato che possiamo cambiare la natura umana.

Possiamo però modificare il contesto in cui le persone operano.

Dando le stesse regole e le stesse istituzioni democratiche,

possiamo indurre gli uomini a comportarsi diversamente tra di loro.

Nella Comunità, gli uomini imparano così a vivere insieme come un solo popolo.

Noi non coalizziamo gli Stati, noi uniamo gli uomini.”

Jean Monnet

Anna Maria

 

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